Sono nato a Samolaco nel 1943, in piena guerra, e lì ho vissuto fin quasi all’età di trent’anni.
La mia famiglia era di quelle di un tempo, molto numerosa e dedita all’agricoltura. Nell’immediato dopoguerra, in mancanza di qualsiasi attività lavorativa che potesse procurare reddito, tutti in famiglia avevano un loro compito, con l’unica finalità di collaborare alla sussistenza del nucleo e con la speranza, nel tempo, di raggiungere un tenore di vita migliore. Nel frattempo, avanti e indietro dalla scuola, che si trovava ad un chilometro di distanza, con ai piedi zoccoli di legno, raramente scarpe, portandosi a tracolla la cartella di stoffa con pochi quaderni, uno o due libri, matita e penna (quelle di allora, con il pennino). Lungo il tragitto si trovava il tempo per giocare a rincorrersi, a tirarsi palle di neve, riuscendo a divertirsi con i semplici giochi che i bambini, allora, si inventavano e perfezionavano da sé. Sapevamo costruirci semplici giocattoli utilizzando ciò che si trovava in natura: zufoli, fischietti, archi e frecce per giocare agli indiani, fionde, bastoni di varie fogge. E appena giunti a casa, un rustico ma consistente pranzo a base di polenta, e poi di nuovo a scuola; al ritorno, verso le 5 del pomeriggio, un po’ di compiti, ma soprattutto tante piccole faccende da sbrigare (portare le mucche all’abbeveratoio, tagliare la legna, occuparci dei piccoli animali (galline, conigli, capre e capretti). I più grandicelli, mattina e sera, si mettevano in spalla un grande recipiente (“brentàl”) pieno di latte appena munto, per portarlo alla latteria (sempre nel centro principale, e quindi raggiungibile dopo una bella camminata, oppure ansimando sui pedali di una vecchia bicicletta).
Nella bella stagione tutti impegnati nei lavori dei campi, nella fienagione (non solo al piano ma anche sulle pendici della montagna, nei vigneti, sui maggenghi).
A giugno ci si trasferiva sul maggengo, mentre a luglio si saliva più in alto, fino a raggiungere l’alpeggio, dove si rimaneva fino ai primi di settembre. Qui, dimenticata la fatica del lungo trasferimento (salivano tutti a piedi sui rustici sentieri, portandosi dei carichi sulle spalle ciascuno a seconda delle proprie forze, e giustamente mia nonna soleva ripetere: “In montagna, chi no g’àn porta no g’àn magna”: in effetti, lassù niente negozi!), per noi piccoli si apriva un periodo felice di serenità e svaghi.
Sarà per questo che per me la montagna, e l’alpeggio in particolare, hanno sempre un sapore particolare, quasi magico.
Stimolato e incoraggiato dai miei insegnanti, fui avviato agli studi, prima presso la scuola media di Chiavenna (allora unica per tutta la Valle), poi all’Istituto Magistrale di Sondrio; infine come lavoratore studente (facevo già delle supplenze) all’Università Cattolica di Milano. Molte e stimolanti sono state le mie esperienze nel campo dell’insegnamento prima (scuole elementari e medie) e poi come dirigente scolastico presso la Scuola Media “Bertacchi” di Chiavenna.
Durante tutta la mia vita lavorativa (nel frattempo, dal 1971, mi ero trasferito a Chiavenna per motivi di famiglia e lavoro) non ho potuto dimenticare le mie origini, le esperienze dei primi anni e della gioventù: esperienze fatte di lavoro, sapersi arrangiare, fare da sé per risparmiare. Il “fai da te”, infatti, ha rappresentato un aspetto costante e prevalente della mia vita e del mio tempo libero, sviluppandosi in tutti i settori ma con una particolare predilezione per la lavorazione del legno.
Solo dopo essermi ritirato dal lavoro ho potuto finalmente dedicarmi a tempo pieno alle mie attività predilette: la vita all’aria aperta, le camminate, la fotografia, le escursioni alla scoperta dei luoghi (anche vicini) che custodiscono la testimonianza delle nostre origini e della nostra storia. Da alcuni anni, insieme ad un gruppo di amici, ho fondato l’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco, che è riuscita a diffondere diverse pubblicazioni ed ha tuttora in corso molti progetti e ricerche. Ritrovandoci con una certa regolarità, raccogliamo vecchi documenti, lettere, fotografie, curiamo la diffusione delle nostre ricerche e proponiamo alle amministrazioni locali iniziative di recupero della storia, delle tradizioni, dei vecchi edifici. L’ultimo successo è rappresentato dall’allestimento di un museo fotografico (inaugurato il 4 ottobre 2008) all’interno della Torre del Culumbée, edificio ritenuto di origine medioevale.
Il mio lavoro più importante è stato il vocabolario dialettale di Samolaco che mi ha impegnato per diversi anni, dandomi però grandi soddisfazioni (la ricerca è stata inserita nella raccolta di dizionari dialettali dell’IDEVV – Istituto di Dialettologia ed Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca ed ha raggiunto le biblioteche delle principali università italiane ed europee). Con questa indagine ho potuto ripercorrere tutte le tappe della mia fanciullezza e gioventù, ricordando attraverso parole ed espressioni ormai sempre più in disuso momenti di vita, persone, abitudini, tradizioni. E’ stata questa anche l’occasione per ricercare oggetti, utensili, attrezzi, e documentare il tutto con delle belle fotografie: la fotografia, altra mia passione, alla quale ora riesco a dedicarmi con maggiore continuità anche grazie ai mezzi offerti dalla moderna tecnologia (fotocamere digitali, computer…).
Ma se dovessi confessare la mia passione maggiore: CAMMINARE, CAMMINARE, CAMMINARE…
Due anni fa, con mia moglie ed un amico, ho percorso poco meno della metà del Camino de Santiago, in tredici tappe. Il mio sogno è di farlo per intero; nel frattempo mi accontento delle escursioni a breve termine, sulle nostre montagne, verso il Lago di Como, studiandomi attentamente itinerari e percorsi sulle varie guide che, fortunatamente, vengono pubblicate con una certa frequenza.
In questo campo, anche “Montagne Divertenti” sta facendo degnamente la sua parte!